8.7.05

tutta un'altra storia, verso tricarico


Forse un giorno lo racconterò, di paesaggi sconfinati che sfrecciano lungo i bordi, nascosti dietro calanchi in moria. Una volta la terra mi ha preso e non mi ha più lasciato andare, gelosa di piedi e di passi che fendono l'aria. E quell'idea della luce: ovunque nel mondo, filari di luci lungo le strade che fanno pensare a strane piantagioni, qui solo mulini in fila, e il buio della notte.

5.7.05

Dove nasce Zoe

Prologo

Zoe
Stava lì, fermo davanti al bancone come se all'improvviso tutt'intorno ci fossero solo immensi dirupi e squarci della crosta terrestre, un vuoto ridondante di eco. Leg lo guardava sbirciando da dietro la prima fila di bicchieri disposti a testa in giù a sgocciolare, mentre si indaffarava a fingere di essere molto occupato con misteriose bottiglie da riordinare sotto al lavandino.
"Dammi il mio tè", avrebbe dovuto dirlo già da qualche minuto, e poi sarebbe andato a sedersi in giardino, sotto l’albero di magnolia. Ma la parola gli è morta in bocca, una foglia secca e accartocciata che impasta la lingua. Tre anni che il vecchio Atom pronunciava sempre la stessa battuta. Qualche volta ci infilava anche un "Buon giorno", o un "Amigo", o tutt'e due insieme, se era di voglia. Da quando aveva smesso di correre dietro a bottiglie scintillanti di alcool, odorose di vino e malvasia, spumeggianti di schiuma al doppio malto. Leg fa il suo mestiere. Versa nel bicchiere tè o vodka con la stessa aria distratta, lo stesso desiderio di essere altrove. Atom invece non si sentiva così leggero. Quella parola, tè, ancora gli si attaccava al palato, a volte, a fargli pensare a quanta sete si può avere nel deserto, a quante casse di birra ci vorrebbero per prosciugarla tutta. "L'ultimo bicchiere l'ho vuotato da un pezzo". Ci era stato costretto, e non sarebbe tornato indietro nemmeno se gli avessero annunciato l'avvento del Signore, nemmeno se lei fosse tornata. Ma adesso, vacillava. Zoe era tornata. I primi tempi, subito dopo l'abbandono, Atom non esisteva. Gli s'era scatenata una bufera, dentro, e continuavi a raccogliere cocci, ogni volta che passava; era tutto in disfacimento. Non vedeva più niente intorno a sé. Sapere che sarebbe morto non lo aiutava a schiarirsi la mente. Avrebbe passato gli ultimi anni della sua vita, fossero stati anche cinquanta, annebbiato, come uno che si fosse perso al Polo Nord, e nessuno avrebbe potuto più riportarlo indietro. Finché un giudice benpensante decise che la sua condotta di ubriacone recidivo era pericolosa per il piccolo Abramo, figlio di primo letto di soli otto anni. Abramo usciva da scuola ogni volta con un quaderno pieno di storie e più ne inventava sul padre più il padre si divertiva a impersonarle, come fossero copioni fatti apposta per mandarlo in scena. Nella nebbia, quel sorriso sdentato era l'unica cosa luminosa. Era il suo paracadute e decise di indossarlo. Si chiuse in un centro di disintossicazione, si fece rimettere insieme i pezzi, si dimenticò persino quella chioma bionda che ora rifletteva il sole di marzo sotto l'albero di magnolia. Si dimenticò d'averla tanto aspettata e si diede a vizi meno lussuosi. Come il tè da Leg, o l'amore con Betsy.
Betsy l'aveva incontrata quasi subito. Una chiacchiera o un sorriso, lei non se li faceva pagare. Così, nel momento peggiore, quando le poche monete che aveva finivano tutte sul bancone di Leg, lei era lì, a terminare le sue esclamazioni lasciate monche da una gola strozzata nel whyskie. Lei non lo evitava. Era una delle poche, oltre la sua ex-moglie, che, santa donna, doveva pur crescere un figlio, e ci volevano soldi. Ma Betsy non lo evitò nemmeno quando Atom le piantò dieci dollari in mano con un occhio spavaldo, l'altro pieno di lacrime. "Continuiamo la conversazione", diceva, e andavano a rintanarsi nel retrobottega. Una volta si fece pietrificare dal sesso, come ora dallo spavento, e se ne stette immobile per qualche secondo, stupito da quanta emozione potesse scorrere ancora in quel corpo sieropositivo. “Non ti fermare”, gli ordinò Betsy, e lui continuò boccheggiando e pensando che poi sarebbe morto, e allora era meglio farlo tra le braccia di lei, che non gli facevano pesare la vita. “Ma tu non hai paura?” “Di cosa?” “Del mio male”. Betsy s’era fatta grandi risate, quella volta, e ad Atom sembrava che risuonassero spavalde come un vaffanculo che la gente per bene, fuori dal retrobottega, non se lo poteva permettere. Lei aveva ragione: di cosa avrebbe dovuto aver paura una donna dopo avere attraversato mezzo Texas a piedi quella volta che il suo uomo le aveva fregato tutti i soldi per rifarsi l’anima in Messico, che teneva testa ogni giorno alla lobby dei magnaccia di Chicago evitando di disperdere il suo patrimonio in mazzette, che aveva sputato fuori tre figli uno più roseo dell ’altro per vederseli togliere di mano in pochi giorni dal suo cliente preferito, Sir William Churchtone, giudice di primo grado. Se la figurava ridere a quel modo mentre metteva piede all’aeroporto di New Mexico, tirando per le maniche sbrindellate i tre marmocchi rosa.
“Betsy, adesso dove sei?” Si sentì come un eretico, all’improvviso. Fuori, sotto una luce abbagliante – o forse erano i suoi occhi a essere abbagliati – c’era Zoe/Chioma bionda, spalle spigolose e morbide come sempre, vestiti leggeri anche d’inverno, che non avresti mai detto che il tempo passa e le stagioni si susseguono, a stare al suo fianco. Fuori, sotto l’albero di magnolie. Il tempo era passato, e ora, all’improvviso, con il vento alto e le nuvole leggere a nascondere momentaneamente il sole, sembrava scuro e minaccioso, una fotografia della morte, con una bella donna troppo ossuta e pallida, sotto il grande albero, scosso dai tremiti della costernazione. Sotto quei rami piegati da ere geologiche ideali, Atom aveva passato i giorni a immaginarsela, questa morte, e da quella prospettiva, essa era l’entrata del bar di Leg, la penombra che sbucava subito dopo il primo passo nell’uscio, lo scintillio invitante dei liquori dietro il bancone. Era la risata lontana di Betsy che risuonava dall’oscurità come un monito ai suoi pensieri impauriti. E aveva sbagliato prospettiva. Gli era mancato un pezzo della fotografia, un frammento strappato troppo presto dalla sua vita perché potesse capire che quello era il motivo per cui tutto si era sfasciato. Una donna troppo pallida, malata. “Mi ha scritto ieri. Dice se vogliamo andarla a trovare. Io devo combattere coi fornitori e tenere pulito il locale, non mi fido a lasciarlo in mano a Tom, ma tu, se vuoi, ti do l’indirizzo. Dice che sta bene.” “Chi?” Leg rovesciò un bicchiere asciutto e versò il tè: “Betsy, a chi pensavi?”.