15.12.05

trasloco in corso

me ne vo'. come dico sul nuovo blog, mi sto stretta e ho bisogno di un posto che si adatti ogni giorno ai miei umori. quindi ecco l'indirizzo cityofzoe. Come si dice? lavoriamo per offrirvi continuità e innovazione... due cose che cozzano alla grande. Per cui non vi aspettate di trovarmi sempre allo stesso posto...
cia'

3.12.05

La lingua lunga, il pene e Lope

All'inizio ho pensato che ci fosse un tema sessual culturale di fondo, per cui mi sono attrezzata a mia volta con un'idea cultural-sessuale, una di quelle genialate degli scrittori postmoderni che mischiano bene innovazione linguistica e caciara, per una letteratura di qualità da vendere a etti. una cosa tipo la mortazza d'autore o la monnalisa fatta di pasta. poi ho riletto lentamente:la-lin-gua-lun-ga-di-pe-ne-lo-pe. non c'entra niente con lope de vega o il siglo de oro, e nemmeno il suo pene (il pene di lope, intendo, non del siglo) che forse non era lungo come la sua lingua ma tant'è, non è per quello che è passato alla storia. c'entra di sicuro la classicità e la caciara. penelope al telaio inventa storie, fa chiacchiere con le comari, mentre attende a finire la sua opera, il ritorno dell'uomo e l'uscita di questa vita, fatta di proci e contumelie. quindi non è un frutto del postmoderno che è in ognuno di noi, ma del classico. alla catullo, insomma. che invoca le sue puttane con versi dorati e inneggia al vino come all'amore, senza tema di aldilà punitivi. la mia idea postmoderna è rimasta uguale, solo più verso li cazzeggio classico. il posto è lalingualungadipenelope e la mia idea "tutti pazzi per mary", del corpo e di altre emergenze.

21.11.05

7 anni di disgrazie

Vorrei uno specchio per illuminare il corridoio, uno di quegli specchi semplici, appoggiati al muro, senza fare fori in nessuna parete. sono in una fase in cui i fori mi bucano l'anima, ho bisogno di preservare intatta la superficie lucida che mi son rifatta.

così lo scelgo: uno specchio che appoggi il suo peso lieve come un frammento di luce. e rifletta. che si presti a metafore per allargare l'orizzonte dei miei pensieri, perché si moltiplichi lo spazio del mio ego nelle sue riflessioni, come una siepe di leopardi. dentro ci andranno a finire l'infinito che mi manca e la leggerezza della materia specchiata.

dico: vorrei uno specchio e lo appoggerò proprio in quel punto, così sarò sicura che passando mi vedrò sfocata e in movimento, come mi piaccio adesso. e appena lo dico, subito una vocina amica mi ribatte: ma lì, uno specchio, non ci sta bene. e poi se lo appoggi cade e se cade si rompe. Morale: se ti compri uno specchio, ti compri 7 anni di disgrazie. allora m'invento 7 pensieri per 7 anni:
fran mi ama, e sono felice
paola diventerà architetto, e sono felice
manu ha trovato il lavoro dei suoi sogni, e sono felice
la casa comincia ad assomigliare ai miei pregi più che ai miei difetti, e sono felice
lori in equilibrio ricostruisce se stessa, e sono felice
i bambini intorno a me aumentano, e sono felice
qualcuno che conosco scrive un libro, un altro diventa fotografo, un altro lavora a teatro, e sono felice.
va bene, ho arginato i danni di 7 anni di disgrazie. adesso vado a specchiarmi per vedere dov'è che faccio felice me stessa.

17.7.05

Della caverna, l'interno e la morte

"Sono un airone", disse, e dispiegò le ali, immense ali bianche, candide come nevi, e con un leggero fruscio fu un punto nel cielo. Da lassù potevi sentire le risate e i ghigni sottili, guardò solo un istante verso il basso poi picchiò sul sole. "Non volevo rompere il sogno, ma è stato come cadere dalla veglia al sonno, inevitabile, impossibile impedire al mio corpo di volare verso la stella padre". E cadde, cadde, cadde. Le ali frantumate in mille fiammelle, la cera sciolta, "Non c'era cera", mi canzonava anche, da laggiù, dal nero oceano e ne uscì delfino "Sono elegante", disse, e sguizzò nel profondo diventando squalo. Quando i suoi denti dilaniarono un tonno, quasi per caso, quasi per sbaglio, risalì inorridito. "Non volevo, non volevo, è stato come cadere dalla veglia al sonno, non sono stati i miei denti a strappare la carne". E piangendo si seccò e dissolse come scultura di sale. E fu granchio, gioioso di zampettare su punte arancio, color del tramonto. Confuso tra le dune ne scelse una abisso e si perse e strisciò fuori lombrico, rotolandosi nel fango, ma un castello era il il fango e la torre più alta crollò scavata da lunghe gallerie di lombrico. E "non volevo, non volevo" e s'addormentò. Schiuse gli occhi all'alba, fissando il monte, ed era cammello, placido, silente. Masticò i resti del suo corpo lombrico e sciolse le redini correndo verso il monte, ma incontrò un burrone. Precipitando pianse ancora per la sua gobba schiacciata di lì a poco. E piangendo divenne pioggia, sognando di incontrare un fiume. E sparse il sale delle lacrime nell'acqua sottostante trascinato dalla corrente, disperso in una goccia. Intrecciò rami e cespugli e rocce informi al suo fluire e su queste ultime sputò l'anima che fu orso. Gli schizzi lo distrassero dai pesci e rise ancora, rise orso, anche se gli orsi non ridono, così si dice. Ma ridendo e schizzando abbatté un albero piccolo e robusto, con furia da orso, senza capire. "Fu come passare dalla veglia al sonno e i suoi piccoli erano in acqua, urlanti, soli. Non poté nulla, si protese, annegò, nonostante gli orsi sappiano ben nuotare. Ma non era orso, bensì zanzara. E divenne il salmone che la inghiottì, e la lontra che lo sgozzò, e il cespuglio che la imprigionò, e il fiore che ne fiorì, e l'eremita che lo strappò per farne minestra e bellezza dello stomaco. E quando tornò nella caverna, nel buio di questa umidità malsana, dopo mille anni vagando attraverso le forme di una vita imperfetta, domandò riposo. E ristette meditando serio sulla sua altezza. Io socchiusi gli occhi. "Dormi?". Sorrisi. "No. Abbandono la veglia".

12.7.05

Sentirai un grande bum

Sto raccogliendo le forze, le metto una sull'altra per raggiungere le vette di un castello immaginario, senza arrivare mai a vederlo neppure da lontano, ma so che c'è, nascosto oltre la nebbia. L'unico obiettivo guardare lì, in quella direzione che non riesco mai a tenere fissa davanti agli occhi, come s'incrociassero, come se i nervi della testa potessero tenderli e scoccare dardi soltanto lontano dal mio bersaglio. E allora mettere una mano dietro l'altra, imparare di nuovo a stare in piedi, come un malato, masticare sentendo i sapori, fare l'amore senza pensieri, lasciare tracce da ritrovare piacendo a dio e a noi, non sporcizia ma segni, non incuria ma sovrappiù d'esistenza. Riconquistare le distanze fino a che il vuoto non sia più pauroso, e il salto verrà.
"Voglio solo la mia casetta e un po' di tranquillità...". Le mie parole raccolgono le tue.
"Un po' di spazio per stendere le gambe e non sentire intralci tra i piedi e la strada".

8.7.05

tutta un'altra storia, verso tricarico


Forse un giorno lo racconterò, di paesaggi sconfinati che sfrecciano lungo i bordi, nascosti dietro calanchi in moria. Una volta la terra mi ha preso e non mi ha più lasciato andare, gelosa di piedi e di passi che fendono l'aria. E quell'idea della luce: ovunque nel mondo, filari di luci lungo le strade che fanno pensare a strane piantagioni, qui solo mulini in fila, e il buio della notte.

5.7.05

Dove nasce Zoe

Prologo

Zoe
Stava lì, fermo davanti al bancone come se all'improvviso tutt'intorno ci fossero solo immensi dirupi e squarci della crosta terrestre, un vuoto ridondante di eco. Leg lo guardava sbirciando da dietro la prima fila di bicchieri disposti a testa in giù a sgocciolare, mentre si indaffarava a fingere di essere molto occupato con misteriose bottiglie da riordinare sotto al lavandino.
"Dammi il mio tè", avrebbe dovuto dirlo già da qualche minuto, e poi sarebbe andato a sedersi in giardino, sotto l’albero di magnolia. Ma la parola gli è morta in bocca, una foglia secca e accartocciata che impasta la lingua. Tre anni che il vecchio Atom pronunciava sempre la stessa battuta. Qualche volta ci infilava anche un "Buon giorno", o un "Amigo", o tutt'e due insieme, se era di voglia. Da quando aveva smesso di correre dietro a bottiglie scintillanti di alcool, odorose di vino e malvasia, spumeggianti di schiuma al doppio malto. Leg fa il suo mestiere. Versa nel bicchiere tè o vodka con la stessa aria distratta, lo stesso desiderio di essere altrove. Atom invece non si sentiva così leggero. Quella parola, tè, ancora gli si attaccava al palato, a volte, a fargli pensare a quanta sete si può avere nel deserto, a quante casse di birra ci vorrebbero per prosciugarla tutta. "L'ultimo bicchiere l'ho vuotato da un pezzo". Ci era stato costretto, e non sarebbe tornato indietro nemmeno se gli avessero annunciato l'avvento del Signore, nemmeno se lei fosse tornata. Ma adesso, vacillava. Zoe era tornata. I primi tempi, subito dopo l'abbandono, Atom non esisteva. Gli s'era scatenata una bufera, dentro, e continuavi a raccogliere cocci, ogni volta che passava; era tutto in disfacimento. Non vedeva più niente intorno a sé. Sapere che sarebbe morto non lo aiutava a schiarirsi la mente. Avrebbe passato gli ultimi anni della sua vita, fossero stati anche cinquanta, annebbiato, come uno che si fosse perso al Polo Nord, e nessuno avrebbe potuto più riportarlo indietro. Finché un giudice benpensante decise che la sua condotta di ubriacone recidivo era pericolosa per il piccolo Abramo, figlio di primo letto di soli otto anni. Abramo usciva da scuola ogni volta con un quaderno pieno di storie e più ne inventava sul padre più il padre si divertiva a impersonarle, come fossero copioni fatti apposta per mandarlo in scena. Nella nebbia, quel sorriso sdentato era l'unica cosa luminosa. Era il suo paracadute e decise di indossarlo. Si chiuse in un centro di disintossicazione, si fece rimettere insieme i pezzi, si dimenticò persino quella chioma bionda che ora rifletteva il sole di marzo sotto l'albero di magnolia. Si dimenticò d'averla tanto aspettata e si diede a vizi meno lussuosi. Come il tè da Leg, o l'amore con Betsy.
Betsy l'aveva incontrata quasi subito. Una chiacchiera o un sorriso, lei non se li faceva pagare. Così, nel momento peggiore, quando le poche monete che aveva finivano tutte sul bancone di Leg, lei era lì, a terminare le sue esclamazioni lasciate monche da una gola strozzata nel whyskie. Lei non lo evitava. Era una delle poche, oltre la sua ex-moglie, che, santa donna, doveva pur crescere un figlio, e ci volevano soldi. Ma Betsy non lo evitò nemmeno quando Atom le piantò dieci dollari in mano con un occhio spavaldo, l'altro pieno di lacrime. "Continuiamo la conversazione", diceva, e andavano a rintanarsi nel retrobottega. Una volta si fece pietrificare dal sesso, come ora dallo spavento, e se ne stette immobile per qualche secondo, stupito da quanta emozione potesse scorrere ancora in quel corpo sieropositivo. “Non ti fermare”, gli ordinò Betsy, e lui continuò boccheggiando e pensando che poi sarebbe morto, e allora era meglio farlo tra le braccia di lei, che non gli facevano pesare la vita. “Ma tu non hai paura?” “Di cosa?” “Del mio male”. Betsy s’era fatta grandi risate, quella volta, e ad Atom sembrava che risuonassero spavalde come un vaffanculo che la gente per bene, fuori dal retrobottega, non se lo poteva permettere. Lei aveva ragione: di cosa avrebbe dovuto aver paura una donna dopo avere attraversato mezzo Texas a piedi quella volta che il suo uomo le aveva fregato tutti i soldi per rifarsi l’anima in Messico, che teneva testa ogni giorno alla lobby dei magnaccia di Chicago evitando di disperdere il suo patrimonio in mazzette, che aveva sputato fuori tre figli uno più roseo dell ’altro per vederseli togliere di mano in pochi giorni dal suo cliente preferito, Sir William Churchtone, giudice di primo grado. Se la figurava ridere a quel modo mentre metteva piede all’aeroporto di New Mexico, tirando per le maniche sbrindellate i tre marmocchi rosa.
“Betsy, adesso dove sei?” Si sentì come un eretico, all’improvviso. Fuori, sotto una luce abbagliante – o forse erano i suoi occhi a essere abbagliati – c’era Zoe/Chioma bionda, spalle spigolose e morbide come sempre, vestiti leggeri anche d’inverno, che non avresti mai detto che il tempo passa e le stagioni si susseguono, a stare al suo fianco. Fuori, sotto l’albero di magnolie. Il tempo era passato, e ora, all’improvviso, con il vento alto e le nuvole leggere a nascondere momentaneamente il sole, sembrava scuro e minaccioso, una fotografia della morte, con una bella donna troppo ossuta e pallida, sotto il grande albero, scosso dai tremiti della costernazione. Sotto quei rami piegati da ere geologiche ideali, Atom aveva passato i giorni a immaginarsela, questa morte, e da quella prospettiva, essa era l’entrata del bar di Leg, la penombra che sbucava subito dopo il primo passo nell’uscio, lo scintillio invitante dei liquori dietro il bancone. Era la risata lontana di Betsy che risuonava dall’oscurità come un monito ai suoi pensieri impauriti. E aveva sbagliato prospettiva. Gli era mancato un pezzo della fotografia, un frammento strappato troppo presto dalla sua vita perché potesse capire che quello era il motivo per cui tutto si era sfasciato. Una donna troppo pallida, malata. “Mi ha scritto ieri. Dice se vogliamo andarla a trovare. Io devo combattere coi fornitori e tenere pulito il locale, non mi fido a lasciarlo in mano a Tom, ma tu, se vuoi, ti do l’indirizzo. Dice che sta bene.” “Chi?” Leg rovesciò un bicchiere asciutto e versò il tè: “Betsy, a chi pensavi?”.